Opportunità ed insidie dietro al voto del 25 maggio
Di Monica Canalis
Dopo una violenta campagna elettorale piena di insulti, urla e cupe evocazioni storiche (da Hitler ai tribunali del popolo) finalmente il 25 maggio si sono svolte le elezioni Europee, Regionali (in Piemonte ed Abruzzo) e Comunali (più di 4.000 Comuni italiani). L’esito è stato sorprendente, anche a causa degli errori dei sondaggisti: sebbene fosse stato previsto un testa a testa tra PD e M5S, il Partito Democratico ha stravinto raggiungendo la percentuale del 40,8% dei voti alle Europee (Movimento5Stelle secondo partito con il 21,1%, Forza Italia 16,8%, Lega Nord 6,2%, NCD-UDC 4,4%, Lista Tsipras 4%) e riconquistando Piemonte ed Abruzzo.
Il leader del PD Renzi aveva improntato il suo messaggio elettorale sulla contrapposizione tra la speranza (incarnata dal PD) e la rabbia (del M5S). Un anno fa, alle politiche del 2013, sembrava aver avuto la meglio la rabbia gridata da Grillo contro il sistema e le istituzioni nel loro insieme. Gli Italiani, stremati dalla crisi economica, dall’inconcludenza e dal distacco della classe politica, in quell’appuntamento elettorale avevano fatto crescere a dismisura i voti di Grillo, scuotendo profondamente il sistema politico bipolare costruito negli anni precedenti. Il 25 maggio 2014 sembra essersi chiuso il ciclo iniziato il 25 febbraio 2013. Tra queste due date è successo di tutto: il rifiuto del M5S verso qualsiasi alleanza, la rielezione di Giorgio Napolitano alla Presidenza della Repubblica dopo il siluramento di Marini e Prodi, la formazione del (debole) governo di larghe intese guidato da Enrico Letta, la condanna definitiva, la decadenza da Senatore, l’ineleggibilità e l’obbligo di prestare servizi sociali inflitti a Silvio Berlusconi, la conquista del PD da parte di Renzi che ha rovesciato l’esito delle Primarie del 2012 contro Bersani, la sfiducia del PD nei confronti di Letta e infine l’ascesa (quasi cruenta) di Renzi al governo …
Insomma, in un anno abbiamo assistito ad un vero terremoto nello scenario politico italiano.
Dopo questa serie di avvenimenti molto confusi e disorientanti, gli Italiani sembrano aver scelto la stabilità, esprimendo in massa un voto di fiducia nei confronti di Renzi, che ha saputo conquistarselo con vigore e coraggio.
Pur trattandosi di elezioni europee e non delle politiche, Renzi trae da questo risultato un enorme credito e la legittimazione democratica necessaria per governare con forza e determinazione. Pur avendo preso meno voti di quelli ricevuti da Veltroni nel 2008 (Veltroni ne prese 12 milioni contro gli 11 di Renzi), Renzi si trova ad agire in un quadro molto favorevole: Berlusconi ormai invecchiato e azzoppato dalle proprie vicende giudiziarie, il centro destra ancora in cerca di un successore, il M5S ridimensionato (anche se non neutralizzato, avendo pur sempre il 21% dei voti ed essendo il secondo partito del paese), la ripresa economica che balena all’orizzonte, la possibilità di giocare nello scenario europeo come principale azionista del Partito Socialista Europeo (si è parlato di Renzi come guida della sinistra europea dopo l’exploit elettorale). L’Italia spicca in Europa per essersi mossa in controtendenza (o come apripista?); se infatti i partiti euroscettici e populisti hanno sfondato in Francia e nel Regno Unito, lo stesso non è accaduto nel nostro paese.
In un quadro come questo non ci sono scuse per rinviare le tanto attese riforme e realizzare le roboanti promesse fatte agli Italiani (una riforma al mese ecc.). Adesso il proclamato cambiamento sembra ineluttabile.
E qui si può nascondere qualche insidia. Questo risultato è infatti una grande opportunità che Renzi ha per portare il paese fuori dalle secche in cui si è arenato e per esportare l’ondata di cambiamento in Europa, ma è anche un risultato complicato da gestire.
Innanzitutto il 40,8% non modifica gli equilibri nel Parlamento italiano, da cui dipende l’efficacia e la celerità delle riforme promesse da Renzi.
In secondo luogo è improbabile che alla base di questo 40% ci sia un blocco sociale stabile e uniforme come quello su cui poté contare la DC per decenni, ma piuttosto uno zoccolo duro di voti del PD (che Renzi è stato capace di mobilitare) a cui si sono sommati i voti di ritorno degli scontenti che un anno fa si erano astenuti, i voti centristi, e un po’ di voti del M5S; una parte dell’attuale elettorato di Renzi è mobile e potrebbe migrare altrove in caso di delusione, se agli annunci non corrisponderanno, velocemente, i fatti.
In terzo luogo non va dimenticata l’enorme percentuale di astenuti: 41,3%. Un vulnus per la democrazia ma anche un rischio per Renzi se questi cittadini dovessero trovare rappresentanza a destra in una rinnovata offerta politica.
Infine il nodo più sottile e culturalmente interessante: il successo di Renzi non potrà mantenersi nel tempo con un partito personalistico e appiattito sulle posizioni del leader, somigliante ad un comitato elettorale più che ad un’organizzazione capace di elaborare un pensiero e una visione della società e in grado di costruire un’identità collettiva adatta alle sfide del nostro tempo. In questi giorni è stato detto che ormai i voti li prendono i leaders, ma la grandezza di un leader è determinata anche dalla sua capacità di far crescere accanto a sé una solida e competente classe dirigente e di dominare, se non disarmare, la lotta tra le correnti quando diventa mera lotta per il potere e perde la carica culturale originaria. La grande prova di Renzi sarà strutturare il pluralismo interno al partito e orientarlo alla formazione e selezione della classe dirigente sul lungo periodo, e non solo alla vittoria alle elezioni sul breve periodo.
Anche Berlusconi nel 1994 seppe portare il fermento nella politica italiana, preannunciando la rivoluzione liberale ed il rinnovamento della classe politica. Ma il paese non fu mai tanto immobile come nei 20 anni del suo potere politico.
Oggi quel ciclo si è concluso, dopo un anno di travaglio inizia un nuovo ciclo e tutti auspichiamo che la speranza invocata durante la campagna elettorale possa finalmente essere realizzata, in Italia come in Europa.
GIOVANI IN GAMBA CERCASI
Di Monica Canalis, 31 anni, Responsabile della Scuola del PD Piemontese
Apparso sul mensile Nuovo Progetto, aprile 2012 – www.sermig.org
A pochi giorni dalla celebrazione del Congresso dei Giovani Democratici, principale strumento di coinvolgimento degli under-30 nel centrosinistra, propongo una riflessione sull’ingresso dei giovani in politica. Maestri veri, studio e motivazioni, per un impegno di qualità.
Per fare politica bisogna studiare. Questa la strada per riportare le nuove generazioni alla politica.
Nell’“Ordine Nuovo” Antonio Gramsci (1891–1937) scriveva: “Istruitevi, perché avremo bisogno di tutta la nostra intelligenza. Agitatevi, perché avremo bisogno di tutto il nostro entusiasmo. Organizzatevi, perché avremo bisogno di tutta la nostra forza”. Per fare politica in modo serio il punto di partenza è lo studio, non il posizionamento o la protezione di qualcuno, ma la preparazione personale e l’approfondimento. Nell’impegno politico c’è una fase iniziale in cui si ha l’impressione che la competenza e la qualità servano a poco per farsi strada, ma è una fase che dura poco. Man mano che si avanza e si assumono maggiori responsabilità ci si rende conto che per incidere e contribuire al progresso dei costumi e delle soluzioni politiche non si può fare a meno di un solido bagaglio culturale, da aggiornare nel tempo e coltivare di pari passo col proprio talento naturale. Credo che questo stile sia imprescindibile per tutti coloro, giovani o meno giovani, che interpretano la politica come un paziente servizio per la collettività e non come una carriera volta all’autorealizzazione egoistica.
Il dibattito sulla scarsa presenza dei giovani in politica mi pare talvolta sterile e superficiale. Per cambiare le cose non servono i giovani in quanto giovani, ma servono giovani in gamba, liberi da una mentalità carrierista, clientelare e nepotistica.
È fuori discussione che i partiti, principali agenti della democrazia e della vita politica, debbano mettere a punto strumenti e forme di organizzazione che favoriscano il ricambio generazionale. In Italia rischia infatti di cristallizzarsi un’oligarchia gerontocratica, in cui le leve del potere, politico e non solo, sono da decenni nelle mani delle stesse persone. L’ingresso dei giovani però non dovrebbe avvenire per affiliazione ad una corrente o per rispetto di una quota anagrafica o di genere, ma piuttosto dovrebbe essere regolato da una progressiva e non troppo lenta responsabilizzazione, sulla base dell’impegno e delle doti personali, e dalla cooperazione con i più vecchi, garantendo un mutuo scambio e riducendo lo scontro generazionale.
Non penso che si possa dire che oggi i partiti sono impermeabili all’ingresso dei giovani; infatti per un giovane è abbastanza semplice avvicinarsi ad un esponente politico e mettersi a sua disposizione. Credo che a mancare non sia la possibilità di entrare ma la possibilità di trovare spazi di approfondimento ed elaborazione per un impegno di qualità.
I partiti devono aprire le porte ai giovani, e soprattutto a quelli più bravi, senza temere la concorrenza di persone brillanti ed innovative. Ma anche i giovani devono darsi da fare. Innanzitutto istruendosi, portando la qualità del loro pensiero e la profondità della loro riflessione, chiedendo più contenuti e meno negoziazioni sui posti. Perché, come ci ricordava Guido Bodrato, senza una visione della vita e della società, la politica si riduce a lotta per il potere.
I giovani poi possono portare nei partiti la genuinità delle loro motivazioni, a costo di rimandare l’avanzamento personale per restare coerenti con i propri valori e progetti.
Per un giovane che si avvicina alla politica credo anche che sia indispensabile cercare maestri … piuttosto che protettori.
E’ importante che i giovani non stiano da soli e vivano la politica in una dimensione di condivisione umana e relazionale, sapendo che la solitudine spesso esaurisce la passione iniziale oppure espone alla tentazione del potere.
L’antidoto rimane confrontarsi, lavorare in squadra e accettare le correzioni. E rispettare l’esempio e l’insegnamento dei “grandi vecchi”. Proprio come ha scritto pochi giorni fa Gianfranco Morgando su questo sito: Oscar Luigi Scalfaro, seppur molto anziano, era considerato dai giovani un punto di riferimento etico, dimostrando che in politica contano le idee e l’esempio, prima ancora dell’età.